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Un disco come non ne sentivo da anni. Potrebbe essere un disco di 40 anni fa per le scelte, che tendono forti al prog. Non ha paura di annoiare, predilige l’analogico al digitale e la registrazione su nastro per regalare all’ascoltatore un prodotto “quasi-live”. Scelta coraggiosa, come quella di cantare in italiano. E l’equazione prog+italiano è facile che dia come risultato qualcosa di simile alla PFM. [...] E' bello ascoltare gli Underfloor per la prima volta e berseli tutti d'un fiato, non scendere dalla macchina per finire di gustare il Cd che parte dal grido energico di “Come un gioco”, per approdare ad una più riflessiva e psichedelica ricerca di emozioni. Dopo la martellata iniziale c'è la tenera poesia di “Don't mind”, un concentrato di miele e dolcezza in cui uno tende a perdersi tra le armonie e il cantato. Sono convinto che questi ragazzi meritino di stare già in radio. Davvero eccellenti. Quello che colpisce subito è il suono caldo e volutamente "vintage" di "Quattro", tanto da indurmi a cercare il codice SPARS dietro il disco che infatti orgogliosamente riporta: AAD (registrazione e mixaggio analogici)[...] Dopo i cambi di line-up degli scorsi anni, il sound della band si definisce grazie all'alchimia via via instauratasi tra la voce morbida e il basso ben definito di Guido Melis, la batteria poderosa di Lorenzo Desiati, le chitarre jazzy di Marco Superti e la viola - all'occasione distorta - di Giulia Nuti. [...] L’album emana un’energia travolgente fin dal brano d’apertura, Come Un Gioco, incorniciato e incalzato della viola distorta di Giulia Nuti; l’alt-rock iniziale, però, inganna e depista l’ascoltatore, mutando via via nel suono esistenziale e catartico della ballata successiva, Don’t Mind, e rimanendo (tranne rare eccezioni) fedele a sé stesso nei brani successivi. [...] Una tensione continua verso orizzonti stilistico in perenne mutamento ha animato il progetto Underfloor fin dalle origini [...] Quattro entra lentamente, coinvolge con la forza di testi ficcanti, tutti in italiano (anche se qualche titolo è in inglese), e di arrangiamenti accurati ed evocativi, impreziositi dalla tecnica analogica di registrazione, che restituisce il gusto di sonorità perdute, eppure tanto amate, come quelle del prog anni Settanta, o del buon pop rock dei primi Ottanta (si pensi alla mai abbastanza celebrata Electric Light Orchestra). [...] Si fa presto a catalogare come indie una prova simile: troppo ricche e poliedriche sono le sfaccettature di un disco che, uscito da qualche mese, anche sulla scorta di molti convincenti live acts, rivela sempre nuove suggestioni. Ascoltare e riascoltare Don’t Mind, Linee di confine, le strumentali L’uomo dei palloni o Solaris per credere: il suono è sempre potente e compatto, la bravura tecnica non è mai virtuosismo avulso dal contesto, e le stagioni dell’esistenza umana vengono scandagliate con lucidità e partecipazione. E' un percorso praticamente perfetto quello che ha condotto gli Underfloor, a dieci anni esatti dalla nascita del progetto, a pubblicare "Quattro", il loro nuovo album di inediti. Quattro ovviamente sta ad indicare il numero dei tasselli incastonati nella loro discografia, ma non solo: il numero quattro indica anche il fatto che i dieci pezzi contenuti nel disco sono il frutto della collaborazione di quattro musicisti straordinari che, ognuno col proprio background e con le proprie idee, ha contribuito alla nascita dell'album [...]
Quattro è un album semplice, ciònonostante di una maturità sconvolgente. Ennesima sensazione positiva per un’altra band proveniente da quella fucina di artistiche tanto sta dando al panorama della musica indipendente italiana, ovvero la Toscana. Mentre ascoltavo i vari brani sono incappato nella settima traccia, Intorno
a me: eureka, fratelli. Una nostrana sintesi di Tame Impala, R.E.M. ed il primo PhilCollins. In certi frangenti la scelta della nostra lingua madre sbilancia il risultato
verso un limbo in cui giacciono pop cantautorale e P.F.M. Le sonorità sono classiche ma fresche, i flauti ed il tremolo di Don’t mind non sono sicuramente i suoni spaziali di cui molti si avvalgono ora, ma la coesione e l’orchestrazione tengono gli Undefloor sempre sul pezzo. La ricerca si fa introspezione, l’avveniristico è intimità, gli interventi di strumenti ad arco rispettano la dignità dello strumento reale, mentre la necessità di snaturarelascia spazio all’espressione. L’aspetto che maggiormente ci colpisce, tuttavia, nel sound degli Underfloor, è la capacità di spaziare tra sonorità pop-rock easy-listening (ma non per questo banali), quali potrebbero essere quelle dell’iniziale “Come Un Gioco”, accanto a momenti accostabili al prog, con l’apporto di strumenti quali la viola o il mellotron, oppure di pura improvvisazione (come in “L’Uomo Dei Palloni”, giusto per fare un esempio). Ciò rende “Quattro” un disco molto particolare, oseremmo dire un unicum nell’attuale scena musicale italiana, da apprezzare a diversi livelli d’ascolto, grazie a canzoni gradevoli ed arrangiamenti molto curati e raffinati. Molto particolari poi anche i testi del cantante/bassista Guido Melis, essenziali ma poetici, suggestivi e molto incentrati sulla musicalità delle parole. Disco davvero interessante, da non far assolutamente passare inosservato. Colpisce immediatamente il fatto di trovarsi di fronte un disco di ottima fattura con un suono molto vintage ma mixato e masterizzato a dovere per non lasciar nulla fuori posto e infatti ogni nota, solo, fraseggio e ritmo posseggono un calore eccezionale che trova la sua concretizzazione in brani da ascoltare e riascoltare. C’è una sorta di fil rouge che lega e confeziona il tutto alla perfezione, sarà forse la coesione sonora del gruppo o forse la deliziosa produzione e scelta di suoni di tutto il disco. Molto probabilmente un’unione delle due ipotesi, resta però che gli Underfloor sono stati capaci di scrivere un album sperimentale al punto giusto, mai troppo ostentato e sempre ben calibrato nel mix di melodia e pura immersione in un fluido musicale. Il cantato in italiano suona, ed è giusto usare tale verbo, sempre appropriatamente e mai fuori luogo come altre volte succede in dischi dello stesso genere. Anche se i riferimenti musicali guardano alla “tradizione” del rock di ricerca (il progressive, che però gli Underfloor interpretano in senso molto lato), c’è una grande freschezza, una forte attualità poetica in questo album che, in alcune tracce, per l’uso “indefinito” della voce come tutt’uno con il magma sonoro della band, sembra rimandare agli ultimi Verdena, calati però in una dimensione più pop. Anche per il valore sonoro attribuito alla parola, quasi l’onomatopea superasse il senso di testi che prediligono il simbolo, la metafora.
Gli Underfloor sanno quali sono i loro obiettivi e in altrettanta maniera conoscono ciò che serve loro per raggiungerli, questo disco ne è la riprova. Sono una realtà decisamente da seguire e da valutare anche in sede live, aspetto che certamente diverrà fondamentale per coloro i quali decidano di intraprendere, o continuare a percorrere, i loro sentieri lastricati di note. E come farlo se non ascoltandone le pubblicazioni? Sono due splendidi brani a nome Don't mind ed Indian song, le vette del disco e forse di tutta la produzione Underfloor. La prima pare estrapolata da qualche oscuro capolavoro prog dei gloriosi settanta: vocalmente Guido è ineccepibile, il pezzo presenta arrangiamenti di livello superiore, segno di una maturità ormai raggiunta dopo dieci anni di attività. Indian song è un favoloso brano di natura psichedelica come il titolo suggerisce, superbo il lavoro strumentale a corredo del pezzo con menzione speciale per Giulia Nuti, al solito ineccepibile con la sua viola che rende magica una composizione già di per sé di squisita fattura. Superba composizione.
I fiorentini Underfloor sono l’ennesimo esempio di come la musica di qualità in Italia sia tutt’altro rispetto a quanto ci viene forzatamente somministrato quotidianamente dalla quasi totalità di televisioni e radio [...]
Il nuovo disco dei fiorentini Underfloor ruota intorno al numero quattro: il loro quarto disco, la formazione divenuta quartetto con l’ingresso in formazione di Giulia Nuti alla viola e alle tastiere e i quattro minuti di Don’t Mind, la più bella canzone del disco. Il resto è piacevolmente sospeso tra echi e riverberi di un passato sonoro rock – dai Beatles di Fool On The Hill ai Pink Floyd di Meddle – e scampoli di rock indipendente italiano come l’ipnotica Indian Song e Come Un Gioco. Guido Melis, bassista dal suono corposo e pungente, si conferma cantante sempre più sicuro dei suoi mezzi vocali e sopratutto lirici: le poche sibilline parole che compongono i suoi testi sono una medicina potente contro l’arida quotidianità.
Un consumo da digital food potrebbe far perdere molto della pasta di una musica, che è stata volutamente registrata su analogico. Gli intrecci degli strumenti, protratti in jam apparentemente spontanee come in Indian Song, fanno pensare a live appassionati e coinvolti. La voce è esclusivamente funzionale al sogno che si dipana lungo le dieci tracce, con testi onirici, tutti in italiano, non riferibili a storie vere e proprie. La musica degli Underfloor ha una trama ricca, che richiede un ascolto attento. Quello proposto è un sound che unisce new wave e progressive e segna con decisione una svolta nella produzione dell’ensemble fiorentino: la viola diventa lo strumento solista, mentre la chitarra acustica ha ora un ruolo preminente lungo tutto il disco, sostenuta dalla robusta ritmica in primo piano di basso e batteria. [...]
“Quattro” si presenta fin da subito per quello che è, un gran bel disco di psichedelia contaminata, dentro il quale si fondono in un’indivisibile sonica unità pensante tutti gli individualismi in campo; dieci episodi attraverso i quali gli Underfloor prendono definitivamente coscienza delle proprie capacità compositive, alternando ardite evoluzioni orchestrali (in odor di prog) a più frivoli disimpegni radiofonici con disarmante disinvoltura, forse senza neanche sfruttare a pieno il proprio carburante artistico; la saggezza ritmica e vocale di Guido Melis, la versatilità sulle 6 corde di Marco Superti, la tonicità metronomica di Lorenzo Desiati e gli spasmi su archi di Giulia Nutini – vero baricentro immaginifico nell’impasto elettro/acustico d’insieme – partoriscono in serie il progressive tribale di Indian Song, la grazia melodica quasi preraffaellita di Lei non sa, l’intermezzo folk-impressionista di Solaris, il pop complesso di Intorno a me e tutto il resto ancora, a completare un affresco analogico d’inquieta bellezza.
La mescolanza tra indie e una certa tipologia di progressive di stampo italico sembra essere un interessante pattern di fondo per molte partiture, le cui digressioni sonore vengono impreziosite dalla suadente vocalità vissuta spesso come strumento aggiuntivo. L’approccio minimale di Linee di confine, arriva poi a disorientare nei suo approcci armonici, che maturano verso un piacevole riff anticipatorio dello scheletro musicale, pronto ad essere percepito solo dopo alcuni ascolti, assolutamente necessari per comprendere le molte sfumature degli Underfloor.
Se dovessi inquadrarli in un genere non ci riuscirei. Recuperano sicuramente il mondo cantautorale italiano, i testi sono tutti nella nostra lingua madre pur presentando talvolta titoli in inglese. Ma musicalmente non si avvicinano affatto alla tradizione nostrana. Hanno conservato forti riferimenti al rock alternativo che però sono colorati dalla presenza costante della viola [...] Quello degli Underfloor è un progetto originale e interessante che può trovare ampi spazi di espressività dal vivo.
Attivi da un decennio, i fiorentini meritano un plauso per la qualità delle loro proposte che mai è venuta meno (certificata da “Intorno a me”) e per una coerenza che, se è pur troppo vero che raramente paga, almeno consente loro di affrontare a testa alta le prove che li attendono. Il quarto disco è quello delle conferme, ma anche delle ripartenze, possibili solo se si è fatto scorta di esperienza, nel caso degli Underfloor lo slancio e l’entusiasmo li porteranno lontani. Curata, come loro consuetudine, la grafica del booklet e di rilievo la nitida produzione.
A Firenze abbiamo una band che ha reinventato la psichedelia e il progressive. Che ha preso una viola “classica” come quella di Giulia Nuti e l’ha fusa con una delle chitarre rock più “orchestrali” in circolazione, quella di Marco Superti. Guidata dalla voce e dal basso di Guido Melis e resa potente dalla gaudente batteria di Lorenzo Desiati. Una band che fa poesia solo con i suoni, senza contare poi che anche con le parole aprono le porte di mondi eterei e volatili di grande raffinazione. È futuristica e vintage allo stesso tempo. In questo nuovo lavoro ognuno dei musicisti è come se andasse alla ricerca del proprio suono, perfezionando la cura strumentale per poi fondersi insieme. Segnaliamo la psichedelica Indian Song (con i virtuosismi di Giulia Nuti), la complessa Linee di confine, la ballata onirica Intorno a me, il rock swingato di Stomp. Tutto registrato in analogico, come una volta. Ma il risultato è molto attuale.
Si chiama "Quattro" anche per l'ingresso in pianta stabile di un quarto elemento, Giulia Nuti, che con viola e tastiere rende più ricco il già corposo suono della band, trascinato da una ritmica compatta e dal ruolo prevalentemente acustico delle tastiere. [...] A brani più marcatamente rock come "Linee di confine" e "Intorno a me" si controbilanciano le inattese pulsioni country di "Stomp" e la struttura complessa della strumentale "L'uomo dei palloni", dove filtrano echi prog e jazzy. Un disco che mostra coesione e maturità. |
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